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Mandami a dire di Pino Roveredo – recensione di Lorenzo Flego

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Tratto da L’oppure

È sempre facile per uno scrittore cedere alla tentazione di termini forbiti, concetti astrusi, citazioni da grandi capolavori letterari; ma una recensione deve rendere giustizia all’intento del testo a cui si riferisce, e a ben vedere, nel caso di Mandami a Dire un linguaggio troppo ricercato non assolverebbe il proprio compito.

Se azzardassimo l’ipotesi che l’intento di questa raccolta di racconti sia prima di tutto antropologico, non credo che correremmo il rischio di venirne smentiti; appare chiara la volontà di scandagliare gli animi, di osservare e descrivere i comportamenti, le azioni, le intenzioni. Ma un’osservazione del genere è decisamente troppo generica; ciò che è importante notare, e ciò che a mio parere rappresenta l’aspetto più interessante della poetica di Roveredo, è il fatto che i riflettori sono puntati proprio su ciò che non è mai stato al centro dell’attenzione, su ciò che è normale.

La quasi totalità del mondo che ci circonda, delle persone, delle cose che ci accadono, si può senza indugio definire normale. Un mondo talmente normale che il nostro occhio, che ha fame di inaudito, di straordinario, tende a ignorarlo. Normale è anche ciò che fa comodo che resti normale: occhio non vede, cuore non duole; normale è il lavoro minorile (Succo d’aceto), normali sono i padri che rinchiudono i propri figli nello sgabuzzino (Brutti sgabuzzini). Un cliché profondamente radicato nelle nostre coscienze, che questo libro si propone di abbattere.

Chi, con questi presupposti, potrebbe avere l’intenzione di posare lo sguardo su ciò che di norma non si vede? Ci vuole una sensibilità fuori dal comune per saper leggere dentro le azioni di una persona comune, monotona, che da quarantatrè anni mette i coperchi sopra i vasi di vernice in una catena di montaggio (L’uomo dei coperchi), o di una coppia di mezza età che “sabato pollo e patatine al forno, martedì lavatrice, giovedì stiratura, domenica Santa Messa e fiore al Camposanto” (La famiglia Starnazza). Una sensibilità del genere deve provenire da un individuo che ha addossato su di sé tutti i pensieri e le sofferenze del genere umano, animale e vegetale. Un individuo che è capace di parlare dei drammi amorosi di un matto per un’amata di cui da anni non conosce la sorte (Mandami a dire), con una tale dolcezza, non può lasciare indifferente il più freddo degli intellettuali.

L’analisi antropologica di Roveredo è un’analisi intima, che guarda a se stesso prima di tutto come parte del genere umano, ben lungi dall’occhio distaccato dello studioso che si infiltra in ciò che è diverso da sé e ne nota gli aspetti più rilevanti; la sua prosa è semplice, a volte addirittura colloquiale, e rappresenta a pieno la celebrazione della normalità, il realismo scevro di particolari pulp e toni moraleggianti.

Man mano che ci si lascia alle spalle un racconto dopo l’altro, il filo conduttore diventa sempre più chiaro: la letteratura insegna che la pluralità del nostro patrimonio culturale, pur implicando un criterio di giudizio soggettivo da parte di ognuno, spinge all’armonia delle differenze. Raccontare la sensibilità dei vinti, dei mediocri, mettendoli a nudo davanti agli occhi del lettore, non può che spingerlo ad immedesimarsi in essi, a prescindere da quanto se ne senta estraneo.

Lorenzo Flego

Taxi Teheran: la quieta ribellione di Jafar Panaji di Lorenzo Flego

Una bella recensione del film Taxi Teheran tratta da L’oppure

Le restrizioni sono spesso fonte d’ispirazione per un autore poiché gli permettono di superare se stesso. […] Invece di lasciarsi distruggere la mente e lo spirito e di lasciarsi andare, invece di lasciarsi pervadere dalla collera e dalla frustrazione, Jafar Panahi ha scritto una lettera d’amore al cinema. Il suo film è colmo d’amore per la sua arte, la sua comunità, il suo paese e il suo pubblico.

Con queste parole Darren Aronofsky, presidente della giuria del Festival di Berlino 2015, premia con l’Orso d’Oro Taxi Teheran di Jafar Panahi, uno dei più acclamati tra i registi iraniani contemporanei. Panahi, tuttavia, non è presente per ritirare il premio. Il 2 marzo 2010 infatti, in seguito ad una manifestazione di protesta contro il regime iraniano, viene arrestato con l’accusa di “propaganda anti islamica”; grazie alla mobilitazione del mondo del cinema verrà rimesso in libertà su cauzione il 24 maggio dello stesso anno, con il divieto di lasciare il paese e di girare film per i prossimi vent’anni. Nel 2011 esce This Is Not a Film, nel 2013 Closed Curtain, nel 2015, appunto, Taxi Teheran.

Alla stregua di Dieci di Abbas Kiarostami (2002), Taxi Teheran è interamente ambientato nell’abitacolo di uno dei tanti yellow cabs che pullulano in città: un continuo campo-controcampo ci mostra le strade, la vita pulsante della metropoli iraniana e, dall’altra parte, i passeggeri del taxi di cui lo stesso regista, che non si prende la briga di mascherarsi dietro un nome fittizio, è il conducente.

Il cinema mediorientale, a parte Kiarostami, aveva conosciuto un altro precedente, in termini di tecniche di ripresa: il film sulla prima guerra del Libano Lebanon, del regista israeliano Samuel Maoz, interamente girato dall’interno di un carro armato. È anche vero però che lo spazio angusto, prigione e salvezza dei soldati, l’adrenalina e il crudo espressionismo della guerra della pellicola di Maoz, non potrebbero essere più distanti dal tranquillo scorrere di una giornata qualsiasi di Taxi Teheran. Una maestra elementare progressista che discute con un borseggiatore, due anziane infatuate dei loro due pesci rossi, la nipotina del regista Hana Saeidi e l’avvocatessa attivista Nasrin Sotoudeh, persone reali, con nomi reali: ognuno dei passeggeri del taxi rappresenta un punto di vista sulla società iraniana, che nel corso del film si delinea davanti agli occhi dello spettatore nei suoi tratti più quotidiani e contraddittori.

Non è il virtuosismo di un artista nella condizione di impiegare liberamente tutti i trucchi del mestiere, non è tantomeno la trama a rendere questo film tanto eloquente quanto le esplosioni e il respiro mozzato di Lebanon. La sua forza emerge dai dettagli; la piccola Hana, che recita allo zio il decalogo, imparato a scuola, per un “film distribuibile” (niente vestiti occidentali, niente “sordido realismo”, i personaggi possono avere solo i nomi dei santi dell’Islam, nessun contatto tra uomo e donna), o che candidamente si chiede perché il realismo del regime si applichi solo alla minima parte della realtà dei fatti. La sua innocenza infantile rende evidente tutta la crudezza del sistema di pensiero degli Āyatollāh, “clero” nonché ceto dominante dell’Islam sciita e, più in generale, della rigida applicazione della Shari’a, la legge di Dio, nonché scienza giurisprudenziale islamica.

Con il “sordido realismo” di Taxi Teheran, Panahi non solo dimostra che il cinema può essere un’arma di protesta incredibilmente efficace ma, con la più grande semplicità, ci fa capire che il quotidiano può smuovere le coscienze al pari dell’inaudito, e molto più da vicino. Il paese dove l’omosessualità e l’adulterio vengono puniti con la pena di morte, è nondimeno un paese di artisti, poeti, intellettuali di ogni sorta, che si fanno immagine di un cambiamento possibile anche grazie al veicolo delle arti.

Lorenzo Flego

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